Gli abiti griffati “ritornano” in Ghana e mettono in difficoltà il tessile locale
GHANA
Che fine fanno i vestiti che eliminiamo pensando di mandarli a vivere una nuova vita da riciclati? Sembra che (una parte) stiano mettendo in crisi l’industria tessile africana. Tant’è vero che diversi Paesi – 12 nel Continente Nero, ma sono 31 in tutto il mondo – li hanno banditi. Peraltro, senza grandi risultati. Complice la crisi, infatti, che ovviamente colpisce anche quest’area del mondo, nei mercati di Ghana e Costa D’Avorio, Togo, Nigeria e Sierra Leone, pantaloni, felpe, magliette, abiti e perfino lingerie griffata da marchi americani ed europei vanno a ruba. Tanto per cominciare costano meno di un capo d’abbigliamento omologo made in Africa. Nei mercatini di Accra, in Ghana, un paio di jeans usati viene venduto all’equivalente di un euro, per il prodotto low cost, e di tre euro per i brand più noti; in un negozio della stessa città, prodotti nuovi locali, o comunque continentali, sono in vendita rispettivamente a 9,5 e 17 euro. L’industria dei prodotti di seconda mano ha ormai raggiunto – in 20 anni – il miliardo di dollari di valore, in Africa. A poco serve, in realtà, laddove è stato introdotto, il divieto d’importazione. Gli abiti firmati – che arrivano non solo dai Paesi occidentali ma anche da Cina, Corea del Sud, Emirati Arabi – riforniscono le bancarelle ininterrottamente attraverso Paesi vicini: per invadere la Nigeria utilizzano come base il Benin, in Ghana (dove si calcola siano introdotto 200 tonnellate di vestiti l’anno) usano vari accessi nell’Africa Occidentale. È la globalizzazione che fa il suo giro. E dopo aver portato lavoro ai Paesi poveri con la delocalizzazione, ora glielo toglie con la concorrenza degli stessi prodotti da esportazione a quelli locali.
Fonte: Corriere.it
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10 aprile 2013 at 5:55 am
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