Al dettaglio o all’ingrosso, chi vuole vendere in Africa deve sapersi focalizzare. Serve un approccio “regionale” o per aree omogenee, che esclude la possibilità di aggredire con un solo modello di business un intero continente. La rivoluzione del consumo di massa, in Africa, scalda i motori, le città galoppano e i giovani vogliono marchi di successo. Dieci Paesi (su 53) consolidano i fondamentali e hanno trainato nel 2011 l’81% dei consumi privati del continente. Anche se povertà e disoccupazione delle “periferie” restano piaghe superiori rispetto a quelle di India e Cina.
In uno dei primi studi di questo genere, il McKinsey Africa Consumer Insights Center ha condotto, tra il 2011 ed il 2012, un sondaggio su 13mila persone in 15 metropoli di 10 dei 54 Paesi del continente africano. Nel 2011, i dieci Paesi presi in considerazione (Algeria, Angola, Egitto, Ghana, Kenya, Marocco, Nigeria, Sudafrica, Sudan, e Tunisia) rappresentavano, da soli, l’81% del consumo privato.
Del resto, come evidenzia anche il recentissimo rapporto di Ernst & Young Africa by numbers, gli investimenti esteri in Africa dal 2010 al 2011 sono cresciuti del 27%, con un aumento complessivo del valore dei progeti del 20%. E a parte i Paesi della fascia maghrebina in cui Italia, Francia e Germania restano i primi partners commerciali, tra gli emergenti subsahariani – tra cui Angola, Nigeria, Ghana e Sudafrica – sono soprattutto Usa, Cina e India gli investitori esteri più presenti.
Ma in tutto il continente, le opportunità di mercato per le aziende che producono beni di consumo sono concentrate per lo più nelle aree metropolitane di diversi Paesi piuttosto che in singoli Stati.
Dal 2000 l‘Africa è la seconda regione con la crescita più rapida a livello mondiale (dopo i Paesi emergenti dell’Asia e al pari del Medio Oriente). Il consumo privato, tra il 2000 e il 2010, è stato, nel continente, superiore a quello di India e Russia (568 miliardi di dollari). E si prevede che nell’arco di 8 anni raggiungerà i 410 miliardi, di cui 185 miliardi dedicati ai prodotti alimentari, ai beni di consumo e all’abbigliamento.
Secondo le stime Mckinsey, entro il 2020 più della metà dei nuclei familiari africani (saranno 130 milioni) potrà contare su un reddito discreto da poter spendere o risparmiare (oggi sono 85 milioni le famiglie che lo possiedono). Il 40% della popolazione già risiede nelle città (l’Africa è più urbanizzata dell’India, con un tasso del 30%, e quasi allo stesso livello della Cina, al 45 per cento). Entro il 2016, più di 500 milioni di africani vivranno in centri urbani, mentre, in base alle previsioni, saranno 65 le città con più di un milione di abitanti rispetto alle 52 del 2011. Inoltre, la popolazione africana è anche la più giovane al mondo. Con più del 50% di persone al di sotto dei 20 anni rispetto al 25% della Cina. Si informa su internet il 67% degli under 24 contro il 32% dei padri e ha un diploma di scuola superiore il 40% degli under 25 rispetto ad appena il 27% degli over 45).
Dunque, le aziende che vogliono entrare nel mercato africano, oppure espandersi localmente – spiega l’analisi di Mckinsey – si trovano di fronte alla sfida di acquisire una migliore comprensione del mercato e dei consumatori.
Gli africani sub-sahariani sono anche i più ottimisti. Il 97% dei ghanesi, ad esempio, si aspetta di diventare molto più benestante nei prossimi due anni. Per i nordafricani la percentuale crolla al 10-15% a causa dell’incertezza derivata dalle recenti rivolte politiche nella regione.
Qualità, ma accessibile. La catena di abbigliamento Gap ha annunciato l’entrata nel mercato sudafricano (come Zara un anno fa) e presto in Egitto. Wal-Mart ha acquistato una quota di maggioranza del retailer sudafricano Massmart.
Per molte aziende che operano in Africa, la pianificazione a livello nazionale e lo stanziamento delle risorse rappresenta ancora l’opzione più diffusa ma spesso inefficiente. «Creando dei profili dettagliati delle opportunità più promettenti a livello urbano – ha spiegato Bill Russo, uno degli autori del report Mckinsey – le aziende potrebbero invece fissare dei target per i loro investimenti in modo più efficace».
Fonte: Il Sole 24 ore