Prima di una curva sulla strada che costeggia l’oceano e che porta agli uffici del WFP (il Programma Alimentare Mondiale) proprio al culmine di un promontorio, ti appare all’improvviso il monumento alla Renaissance Africaine, un “mammozzone” inquietante, alto 49 metri, stile sovietico, che raffigura un uomo e una donna con un bambino in braccio proteso verso l’Occidente. I protagonisti dell’immenso gruppo marmoreo sono seminudi, e questo suscita subito una domanda: ma questo, ci si chiede, non è un paese musulmano per il 90% ?
Dove comincia il viaggio. Il viaggio di cinque giornalisti europei attraverso il Senegal, comincia qui, tra le vetrate affacciate sull’Atlantico, nell’ufficio di Ingeborg Maria Breuer, la responsabile del WFP in questo paese, con il 58% di analfabetismo, una speranza di vita di 56 anni per gli uomini, di 60 per le donne e un problema endemico di malnutrizione diffusa, soprattutto nelle zone rurali, le più esposte ai cambiamenti climatici, soprattutto qui lungo il bordo meridionale del Sahara. La ricognizione sui progetti del WFP avviene un anno dopo la devastante siccità che ha colpito la regione del Sahel e del West Africa. C’è stata un calo drastico nella produzione agricola e i contadini hanno visto compromessa la loro capacità di garantire un’alimentazione regolare alle famiglie.
Chi paga più caro il cambianto climatico. “Il fronte degli interventi – dice la Breuer – è ampio, costoso e complesso. Nel 2012-2013 abbiamo portato aiuto a circa un milione e 200 mila persone, con un costo di 72.5 milioni di dollari. Nel quadriennio 2012-2016 si prevede un incremento che porterà a 1.9 milioni di beneficiari, con 1 milione di dollari in più, grazie anche ai contributi dell’Unione Europea. Gli obiettivi – aggiunge – riguardano l’aumento della capacità di resistenza delle comunità già vulnerabili, per povertà endemica e descolarizzazione, coinvolte nelle siccità cicliche che si verificano lungo la frontiera meridionale del Sahara”. Circa un milione di esseri umani pagano per primi e con un costo più alto di altri, il prezzo dei cambiamenti climatici in corso. Popolazioni sottoposte allo stress della frequenti siccità (tra settembre aprile-maggio) e delle violente e persistenti precipitazioni tra giugno e settembre. Il WFP interviene sulle infrastrutture danneggiate e con gli aiuti alimentari per i bambini, acquistando prodotti alimentari da contadini brasiliani.
La muraglia di alberi. “Qui nella zona di Louga, ad un centinaio di chilometri dal confine con la Mauritania, l’avanzamento del deserto è, come vedete, una minaccia seria – dice Ousmane Badji, funzionario senegalese del WFP – l’idea è di creare una muraglia di alberi per fermare l’avanzata del Sahara, una striscia arida che si estende dal Senegal fino a Gibuti, nell’estremo oriente africano”. Il progetto riguarda circa 840 mila ettari solo nel territorio senegalese. Un “muro” di quasi 15 chilometri di larghezza e circa 8.000 km di lunghezza, che rallenterebbe l’erosione del suolo e la velocità del vento, oltre ad avere la funzione di filtrare la pioggia nel terreno, per da arrestare l’avanzata del deserto.
La burocrazia statale che frena. “La risposta alla crisi è difficile, perché avviene in un territorio immenso – dice Wanja Kaarina-Ndoho – il governo partecipa ed è molto aperto, a differenza del precedente che invece tendeva a minimizzare i problemi e a negare l’urgenza degli aiuti. Purtroppo però succede che anche se cambia il governo e si avvertono aperture, più o meno ampie, quello che non cambia mai sono gli strati che sottostanno alla politica. E’ l’apparato burocratico insomma che sembra non cambiare mai e che fa da freno. Ma questo non è solo un problema del Senegal, riguarda un po’ tutti i paesi africani”.
L’obiettivo è raggiungere la normalità. “Purtroppo – confessa Ingeborg Breuer – non siamo ancora riusciti ad aumentare, quanto avremmo voluto, la capacità di resistenza della popolazione più esposta ai cambiamenti climatici. Stiamo però sperimentando nuovi approcci”. I progetti del WFP hanno a cuore il ripristino della normalità nelle famiglie, badando che i bambini vadano a scuola. E per questo, l’anno scorso, si sono avvalsi dei contributi finanziari di 15 donatori dalla Germania, dal Brasile e dalla Cina.
Il cibo per fermare l’emigrazione. A Pass Koto c’è un’agenzia statale, “La grande muraglia”, un nome pertinente alla sua funzione, che è quello di impedire, attraverso la distribuzione del cibo del WFP, che la gente abbandoni la zona, tra le più colpite dai cambiamenti climatici, per emigrare verso Dakar. L’unico rischio è quello di sempre: e cioè che l’assistenza diventi cronica e inibisca forme di sviluppo autonomo. In luoghi come questo, le piogge torrenziali e l’aumento esagerato delle temperature hanno un impatto devastante con la produzione di cibo e dunque con la malnutrizione e la denutrizione. .
Terre degradate e deforestate. In Senegal ci sono segnali di cambiamento climatico assai marcati, soprattutto a ridosso dei confini con il Mali. Nel sud ovest in particolare c’è stato un cambiamento visibile nella carta che riporta i dati della deforestazione del ’69, ’88 e del 2012. Terre degradate e spogliate anche a ridosso con il confine con la Guinea Bissau. A tutto questo si aggiunge si aggiunge l’erosione della costa, che si ritrae per circa 2 metri ogni anno. E poi la salinizzazione dei terreni che annienta intere aree coltivate.
Lo Stato è assente. “Il problema è che in questa zona, dove ci sono una quarantina di villaggi, e circa 14 mila persone, non vedi un funzionario dello Stato neanche dipinto”, dice Deoulde Sowo, che ci accompagna nella casa-capanna di Djenabon Diallo, una mingherlina con 10 figli, che crescono nella polvere e che alimenta i suoi figli con alimenti a base di zuccheto e arachidi, una delle grandi ricchezze di questo paese. Il WFP supporta l’alimentazione della gente, da queste parti, con sacchi di riso, cipolle, che hanno sostituito i “papponi” di miglio abituali.
Le gabbie antipioggia. Le “frustratte” del clima lasciano i loro effetti anche a Kaymor, un villaggio nel dipartimento di Nioro du Rip. Malik Ba è a capo di una Ong locale che si chiama Symbiose e che – con l’aiuto del WFP – tenta di arginare i danni che le piogge violentissime che erodano il terreno. Con la gente del villaggio ha escogitato un sistema geniale che consiste nella costruzione di gabbie di fil di ferro dentro le quali vengono stipati pezzi di roccia. Le gabbie vengono poi messe sui terreni in pendenza e lungo i solchi provocati dallo scorrere dell’acqua per frenarne e orientarne la corsa.
La diga contro la salinizzazione. Intanto a Fayil si cerca di salvare un territorio “inquinato” dal sale marino che penetra nel sottosuolo, nonostante il mare si trovi ad una cinquantina di chilometri. Qui, il WFP finanzia un progetto di desalinizzazione dei terrini con la costruzione di dighe. Gli ingegneri mostrano un barrage lungo più di 400 metri che, da una parte fa recuperare fertilità al terreno e, dall’altra, crea le condizioni per produrre sale.
La ricchezza del sale. Nelle saline di Fayil lavorano solo donne. “E’ un lavoro duro”, dice Selby. “Tutto il giorno sotto il sole a recuperare sale. A volte mio figlio, che porto addosso a me, si mette a piangere. Ma poi smette. Siamo comunque orgogliose di quest’attività e di riuscire a sostenere le nostre famiglie”. La mancanza di iodio è un grave problema in questo paese, provoca difetti alla nascita per i bambini e di gozzo per gli adulti. Le donne produttrici di sale stanno combattendo contro questa forma di malnutrizione con l’aiuto di un progetto del WFP che le aiuta ad arricchire il sale con lo iodio, oltre che a formarle come imprenditrici.
Fonte: Repubblica.it