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Il Sud Sudan e l’emergenza immondizia

06 Set

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Sono dappertutto: lungo le strade e impigliate tra i cespugli, nelle buche erose dalle piogge tropicali, ammucchiate tra le case e le capanne di fango. Dopo il tramonto, il fumo dei piccoli falò con cui si cerca di eliminarne la presenza appesta l’aria. In una città senza acquedotti, le bottiglie di plastica non sono un lusso, ma una necessità. A Juba, la capitale del Sud Sudan, si stanno rapidamente trasformando in un’emergenza. Un milione di bottiglie da mezzo litro utilizzate ogni giorno – ed è una stima per difetto, calcolata su un’approssimazione: a seconda delle fonti, la popolazione di Juba oscilla tra gli 800mila e il milione e 200mila abitanti – e nessun luogo per gettarle. Un incubo ecologico, un’ipoteca sul capo delle nuove generazioni. Una questione pressante, cui qualcuno, per la prima volta, sta tentando di dare una risposta.

LA SFIDA – «Quando l’anno scorso ho messo piede a Juba, le bottiglie sono state la prima cosa che ho notato. E mi sono detto: bisogna fare qualcosa». Olivier Laboulle, un passato ambientalista in Francia e un lavoro all’Unesco alle spalle, non ha perso tempo. Insieme ad alcuni attivisti sudsudanesi, in meno di un anno ha dato il via ad una ong «verde», Environmental Rehabilitation Program (ERP), e al primo programma di riciclaggio del Paese più giovane del mondo (il Sud Sudan è diventato indipendente il 9 luglio 2011, dopo oltre vent’anni di guerra civile ininterrotta). Juba Recycles, il progetto targato ERP, funziona così: quattro (per ora) cooperative di donne – per la maggior parte «rientrate» da Khartoum, o in fuga dal conflitto interno che sta devastando lo Stato di Jonglei – e 26 scuole, insieme ad alcuni punti di raccolta nella base UNMISS (la missione Onu in Sud Sudan) e in altre residenze private. Le donne raccolgono le bottigliette abbandonate per strada, nei campi, di fronte ai negozi. Gli studenti dedicano alla pulizia delle aule e del cortile un paio d’ore alla settimana. Il camion di Juba Recycles raccoglie periodicamente i sacchi pieni; un altro gruppo di donne separa il materiale riciclabile dagli «intrusi» (lattine, bottiglie non PET, eccetera) e rimuove con cura le etichette. Le bottiglie ripulite vengono poi sminuzzate in «fiocchi di plastica», e vendute in Kenia e in Uganda. Destinazione: le fabbriche tessili cinesi, dove i “«fiocchi» saranno trasformati in fibre sintetiche. I

RISULTATI – «Il target che ci prefiggiamo di raggiungere entro novembre – spiega Laboulle – è di una tonnellata al giorno; in futuro potremmo arrivare a due. A Juba vengono quotidianamente gettate via 20 tonnellate di bottiglie di plastica». L’operazione punta a generare 35mila dollari di profitto all’anno, tutti a sostegno della comunità. «Un chilo di plastica riciclata vale 0,4 dollari; una tonnellata vale 400 dollari, ed è pari a 33mila bottiglie. Le donne delle nostre cooperative guadagnano tra i 7 e i 14 dollari a settimana, lavorando circa 3 ore al giorno». Gli studenti, invece, possono «investire» il ricavato in strumenti utili per la propria scuola: alla Rainbow School, ad esempio, in meno di tre mesi hanno quasi raggiunto la cifra necessaria per acquistare una cisterna per l’acqua. Il progetto è sostenuto dai fondi dell’Ambasciata Francese in Sud Sudan e dal generoso (e lungimirante) contributo – il terreno che “«ospita» la macchina per il riciclaggio, l’energia elettrica, l’acqua – della SSBL (Southern Sudan Beverages Limited), compagnia sudafricana che a Juba produce birra, bevande gassate e… acqua in bottiglia. «Il nostro obiettivo – auspica Laboulle – è di diventare economicamente indipendenti entro l’anno nuovo».

L’EMERGENZA – Juba Recycles, in realtà, mira a qualcosa di più. Perché per invertire la rotta di una città sempre più soffocata dai suoi stessi rifiuti, purtroppo, non basta un progetto di riciclaggio. Soprattutto quando la soglia di guardia è già stata superata. L’unica discarica esistente a Juba fatica a gestire le quasi 150 tonnellate di immondizia raccolte ogni giorno in città; la mancanza di energia elettrica (a meno di ricorrere ai generatori) impedisce la costruzione di un inceneritore, e l’unica via percorribile è quella di scavare una buca, gettarci i rifiuti, ricoprirli di terra con un bulldozer. Nella fase di scarico, un nugolo di donne e bambini si precipita sui sacchi di immondizia, a caccia di avanzi di cibo e materiali di recupero, tra gli aghi dei rifiuti ospedalieri e i resti marcescenti dei mercati. Nessuno porta guanti di gomma: non se li possono permettere. «Abbiamo provato a fermare i bambini – spiega uno degli addetti alla gestione della discarica – ma se li buttiamo fuori, scavalcano la recinzione e sono di nuovo qui». Sono gli ultimi degli ultimi, un problema aggiuntivo che in molti scelgono di non vedere. A Juba, del resto, persino i camion per la raccolta rifiuti sono un bene prezioso: dei 10 al momento disponibili, uno è guasto, e in Sud Sudan non ci sono meccanici specializzati in grado di ripararlo. I mezzi sono di seconda mano, acquistati a Dubai al prezzo di 165mila dollari l’uno grazie al sostegno di JICA, la cooperazione allo sviluppo del governo giapponese.

IL FUTURO – Juba produce 129.210 tonnellate di immondizia all’anno. Il che significa che oltre metà della spazzatura rimane lì dov’è: a bordo strada, lungo la riva del fiume, davanti alla porta di casa. Nelle ore più calde del giorno, la puzza è onnipresente. Per non parlare dei rischi di infezione ed epidemie. Il piano strategico elaborato dal governo locale in collaborazione con i giapponesi prevede di raggiungere lo smaltimento dell’80% dei rifiuti entro il 2015. Nessuno, però, sembra crederci più di tanto. «Qui la pratica corrente è: sporchiamo pure, tanto il governo pulirà per noi», commenta amaro Gömbu Wani Latio, ministro dell’Ambiente per l’Equatoria Centrale. «Questo approccio va sradicato. E possiamo farlo solo educando: tramite le scuole, le radio, le comunità locali». La questione riciclaggio è una spina nel fianco: «È vero, la discarica può essere migliorata. Ma senza inceneritori, continueremo a seppellire la plastica sotto tonnellate di terra. E la plastica non è biodegradabile. Stiamo lottando con le emergenze del presente, e nessuno che pianifichi per il futuro…». Juba Recycling è un primo tentativo di guardare avanti. «E noi vogliamo aiutarli ad allargare il programma. Perché è solo coinvolgendo la comunità locali che si possono davvero cambiare le cose».

Fonte: Corriere.it

 
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Pubblicato da su 6 settembre 2013 in Uncategorized

 

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