Sono trascorsi tre anni. Eppure sembra molto di più: in questo lasso di tempo la disperazione ha preso il posto della speranza, la paura si è sostituita all’ottimismo, la violenza trionfa dove prima c’erano manifestazioni per lo più pacifiche. Solo tre anni per far dimenticare quanto le folle del Medio Oriente, e assieme a loro tanti nel mondo occidentale, inizialmente fossero rimasti affascinati dalla forza trainante, innovativa, rivoluzionaria e giovane di quelle che furono quasi subito definite “le primavere arabe”. Oggi il fanatismo islamico in crescita quasi dovunque nel mondo musulmano, i massacri, il terrorismo, la follia distruttrice in Siria, la destabilizzazione egiziana, il caos in Yemen, lo sfascio della Libia, hanno cancellato le speranze iniziali. Ma proprio per questi motivi vale la pena di ricordarle. Partendo da quel famoso 14 gennaio 2011, quando in modo repentino il presidente tunisino Zine El Abidine Ben Ali fuggì dal suo Paese come un ladro nella notte per rifugiarsi in Arabia Saudita. Pochi avevano predetto che dovesse iniziare proprio in Tunisia, tutto sommato il Paese più moderato, relativamente benestante e aperto al mondo di tutto il Medio Oriente.
Da qualche tempo esperti ecommentatori mettevano l’accento sulle pericolose e destabilizzanti ripercussioni della crisi economica globale sui Paesi poveri della regione. Si parlava del malcontento crescente in Egitto per il fatto che il presidente Hosni Mubarak avesse accettato come successore il figlio Gamal, inviso agli stessi circoli di regime. Si paventava una nuova ondata di violenze in Algeria. E invece cominciò a Sidi Bouzid, una cittadina povera e remota tra le province meridionali, a oltre 350 chilometri dalla costa tunisina, dove le colonne di jeep dei turisti transitano senza fermarsi per raggiungere le località più affascinanti nel cuore del Sahara. È bene sottolinearlo: queste sono zone dove le rivolte popolari per “pane e lavoro” sono di casa. Il tasso di disoccupazione è alle stelle, la frustrazione dei neo-laureati costretti a lavoretti di ripiego si respira nei piccoli caffè lungo la strada. Ma il 17 dicembre 2010, il gesto disperato di Mohamed Bouazizi, un giovane neo-diplomato che si dà fuoco e muore per denunciare il suo dramma personale, assume presto una dimensione di mobilitazione collettiva.
In pochi giorni le sommosse dal sud arrivano alla costa. Tra il 5 e 7 gennaio si allargano alle università nella capitale. I manifestanti però qui non chiedono solo lavoro, le loro richieste si affinano con il passare dei giorni e si innestano su di una antica tradizione, legata al modello culturale francese importato nella ex colonia e cresciuta poi tra i circoli della sinistra laica, tra i sindacati, i circoli intellettuali, i teatri,gli artisti.
In Tunisia esiste una classe media ben radicata, che ora chiede la fine della corruzione e del nepotismo, esige il cambiamento del sistema. Non a caso a Tunisi un piccolo gruppo di giovani avvocati si trasforma in classe dirigente temporanea del movimento. Sono loro via internet a denunciare la corruzione, il nepotismo esasperato dei circoli legati alla famiglia del presidente e i Matri collegati alla moglie. Gli slogan delle sommosse, gli appelli alla mobilitazione, le strategie dello scontro di piazza contro la polizia e l’esercito si trasmettono via rete. Ben Ali blocca a intermittenza le linee telefoniche, ma lo fa troppo tardi. La piazza ricordada vicino le mobilitazioni del 1968 europeo. La rivolta è laica, indubbiamente poco influenzata dai Fratelli Musulmani, che pure rappresentano storicamente l’opposizione perseguitata. Alla fine però l’elemento decisivo che causa il crollo del regime è lo stato maggiore dell’esercito, che rifiuta di dare l’ordine ai soldati di sparare sulla folla. È allora che Ben Ali getta la spugna e scappa.
Durante l’estate però le forze islamiche si presentano per reclamare la loro parte. Dall’esilio parigino arriva Rashid al-Ghannushi, leader storico del partito islamico Ennahda. La folla che l’accoglie festosa all’aeroporto lancia un messaggio di sfida alle avanguardie laiche. In poco tempo scoprono la realtà: loro hanno fatto la rivoluzione, ma restano una minoranza urbana concentrata lungo la costa, dove il reddito medio è molto più alto che quello delle campagne e nei centri verso il deserto. Una verità che si trasforma nella vittoria di Ennahda alla elezioni per l’assemblea costituente del 23 ottobre 2011. Per tutto il 2012 cresce la tensione tra laici e religiosi. Soprattutto comincia ad apparire la violenza degli estremisti salafiti. Ennahda a parole li condanna, difende la democrazia, i diritti civili. Ma nei fatti sotto il suo ombrello protettivo l’intolleranza religiosa fa proseliti. Il 6 febbraio 2013 a Tunisi viene assassinato Chokri Belaid, difensore ad oltranza della laicità dello Stato e leader del Movimento Democratico Patriottico. Il suo funerale diventa una grande prova di forza popolare.
Ma il fronte laico ha paura, sente di essere minacciato e di non avere abbastanza sostegno popolare per rovesciare radicalmente la situazione. I gruppi qaedisti sono in contatto con i “fratelli” in Libia e Algeria, attraverso i 1.600 chilometri di confine orientale arrivano armi dai vecchi arsenali di Gheddafi. Il 25 luglio il terrorismo colpisce ancora. È assassinato per strada Mohamed Brahmi, leader del Movimento Popolare e amico fraterno di Belaid. In tutto il Paese scoppiano violente proteste, vengono saccheggiate parecchie sedi di Ennahda. La pressione è tale che Ghannushi il 27 agosto decide di far mettere fuori legge Ansar al-Sharia, uno dei gruppi salafiti più pericolosi e considerato mandante degli assassinii politici. Si mira intanto ad elaborare la nuova costituzione entro il 14 gennaio 2014: una data simbolica a suggellare la rinascita pacifica tre anni dopo la fine della dittatura. Le forze laiche riescono ad introdurre diversi emendamenti in chiave liberale. Il dibattito continua in queste ore. La Tunisia ancora una volta vorrebbe fare da esempio per l’intera regione avvolta nel caos.
Fonte: Corriere.it