L’Antico Continente è il nuovo mondo della camorra. Valigette zeppe di soldi che viaggiano tra la Campania e il Centro Africa; investimenti milionari dietro cui nascondere gigantesche operazioni di riciclaggio; e oscuri accordi commerciali (e diplomatici) tra «colletti sporchi» e padrini senza scrupoli che spuntano con sempre maggiore frequenza nelle inchieste della Dda di Napoli. Non suggestioni investigative o ipotesi di lavoro, ma tracce ben evidenti nelle intercettazioni telefoniche e nei verbali dei collaboratori che raccontano l’universo in movimento della camorra che si fa società per azioni internazionale.
Prendete Angelo Grillo, businessman in odore di mala di Marcianise. Un enorme paesone della provincia di Caserta dove il clan dominante, i Belforte, controlla finanche la sanità locale. E dove lui, grazie alle amicizie «giuste», è riuscito a mettere su un discreto impero economico.
«Il nuovo mondo per investire è l’Africa», spiega a Gabriele Piccolo, l’«ufficiale di collegamento» con il gruppo criminale cittadino. I due sono intercettati nell’ambito dell’inchiesta che ha portato in galera dirigenti e funzionari ospedalieri e dell’Asl per appalti truccati.
Il meccanismo, a sentire i due, è più comodo di quanto si possa immaginare. Perché – continua il primo – «tu prendi la valigetta e gliela dai. Tu devi dire, quella la parola d’ordine… pronunciata la parola d’ordine, il corriere può trasferire il denaro all’estero».
Facile facile. A un costo, tutto sommato, abbordabile. Gli spalloni che si addentrano nel continente nero, infatti, trattengono una quota del 5 per cento sul totale da «bonificare» fuori dai confini nazionali.
«Ogni mese parte in Somalia qualcosa come un milione di euro di tutti questi che vivono qua, perché ognuno chi manda 300 e chi manda 500 per mandare a scuola i figli e cose varie… La Finanza può prendere il piccolino, a questi quando li prendi?», si domanda Grillo alludendo all’abitudine degli extracomunitari, residenti in provincia di Caserta, di inviare contanti nei paesi d’origine. La riflessione è semplice: tra le cifre che, ogni mese, gli immigrati rimettono ai familiari rimasti in patria può ben nascondersi il flusso di banconote sporche guadagnate col racket o la droga. Si mimetizzano, i capitali della camorra, come felini nella savana.
L’unica controindicazione, ribatte Piccolo, che sarà pur sempre un criminale di strada ma non è proprio fesso, sta nel fatto che «devi avere il coraggio di portare i soldi in Africa». Già, perché tutto può succedere: anche che un camorrista finisca truffato.
Chi aveva già iniziato a pianificare addirittura l’insediamento di un piccolo centro industriale in Costa d’Avorio, è la famiglia La Torre di Mondragone attraverso un cancelliere in pensione della Corte di Cassazione.
Le indagini hanno permesso di ricostruire tutti i passaggi del piano a cui partecipano non solo gli esponenti di vertice dell’organizzazione criminale ma anche nomi apparentemente insospettabili: imprenditori del nord Italia e dirigenti di istituti di credito, oltre a rappresentanti diplomatici. Il cancelliere assolveva a un duplice compito: da un lato rappresentava la «faccia pulita» della holding criminale, che certamente non avrebbe potuto dialogare con gli altri soci facendo sedere al tavolo, un malvivente mezzo analfabeta, e dall’altro drenava fondi e individuava finanziatori.
«Il compito di Cesare Salomone (il cancelliere indagato, ndR) – ha scritto il gip nella misura cautelare – è quello di sfruttare il suo ruolo di funzionario in un prestigioso ufficio giudiziario per cercare di avvicinare personaggi politici di rilievo regionale e nazionale da convincere circa la bontà dell’investimento, con ciò procacciando ai suoi committenti sia la solidità e la garanzia derivanti dalla autorevolezza dell’imprimatur politico, sia la tranquillità di non trovare ostacoli di carattere procedimentale o diplomatico presso il paese estero».
L’intenzione di costruire un polo alimentare per «la pasta e la panificazione» e la «lavorazione del latte» resterà comunque sulla carta per le difficoltà legate all’organizzazione e all’esecuzione di una così complessa attività imprenditoriale. Nella quale – si legge negli atti d’inchiesta – i promotori volevano addirittura coinvolgere l’ex ministro Claudio Scajola (del tutto estraneo alla vicenda).
Il vero salto di qualità, però, i Casalesi erano pronti a farlo con una mossa così spregiudicata da lasciare interdetti gli stessi investigatori che pure avevano iniziato a scavare alla ricerca di prove e riscontri. Trasformare i due avvocati di riferimento del sodalizio criminale in consoli di una nazione del centro Africa così da conquistare l’immunità diplomatica e un bel po’ di agganci internazionali utili a neutralizzare eventuali iniziative giudiziarie e fare soldi in giro per il mondo. Pensateci un attimo: che potenza avrebbe un clan se al suo interno ci fosse un soggetto titolare di valigetta diplomatica e di tutte le garanzie e le coperture che il ruolo garantisce?
È un fascicolo del pool anticamorra di Napoli a raccontare, con interrogatori e verbali di collaboratori di giustizia, l’«Operazione Feluca». I legali Catello Di Capua e Michele Santonastaso – arrestati entrambi per storie di camorra – avrebbero aperto tre sedi consolari nelle città più importanti d’Italia. Roma, Milano e Napoli. Si sarebbero occupati di commercio internazionale, petrolio, diamanti e oro. Sarebbero, insomma, diventati «intoccabili» per la giustizia italiana.
Fonte: Il Sole 24 ore