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“L’Africa non esiste”

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Gli scrittori italiani sono attratti dall’Africa. A partire da Cecchi, Ungaretti, e Marinetti, per arrivare sino a Bianciardi, Manganelli, Moravia e Celati, sono infatti diverse le opere dedicate a questo continente. Perciò, scegliendo come titolo per il suo libro L’Africa non esiste, Gianni Biondillo ci fa capire che i suoi reportage vogliono sfatare un mito, quello che probabilmente stava alla base di alcuni di quei racconti di viaggio, ad esempio il moraviano A quale tribù appartieni, pubblicato all’inizio degli anni Settanta, deciso a restituire le impressioni ricevute in quella «zona ideale e senza tempo che chiamiamo Preistoria».

I suoi articoli – il libro di Biondillo è una raccolta molto omogenea e compatta di pezzi scritti per giornali e settimanali – non somigliano neppure alle Avventure in Africa (1998) di Gianni Celati, vera messa in discussione del mito turistico, diario di appunti nell’Africa dei Dogon, zaino in spalla, nell’altalenante ricerca di se stessi. Biondillo è un viaggiatore post-post-coloniale, appartiene all’epoca delle Ong. Arriva in Africa principalmente per vedere di persona esperienze di organizzazioni italiane che vi lavorano da tempo, invitato da loro. Nel frattempo ci sono state guerre civili terribili, i migranti diretti in Europa, la caduta di tanti regimi, l’arrivo dei Cinesi. Scegliendo un titolo manganelliano – nel 1970 Manganelli aveva scritto un lungo testo Viaggio in Africa rimasto inedito –, Biondillo vuole dirci che non è più il caso di cercare quel continente che abbiamo in testa con i suoi miti ancestrali: il selvaggio, il primitivo, la povertà, l’indigenza. Non che non ci sia anche questo, ma quello che il giallista milanese scopre nelle sue reiterate trasferte in Mali, Ciad, Etiopia, Eritrea, Somalia, Egitto e Libia, è un contenente che sta trasformandosi profondamente, che cresce tra mille contraddizioni, e che ben presto farà sentire, nonostante l’indigenza presente, la propria voce.

Sono parole di speranza che Biondillo riporta dai suoi viaggi, a volte anche tragiche, come nell’Uganda dei bambini-soldati, dove raccoglie le testimonianze di vittime e carnefici. Il tono dei vari reportage è sempre positivo, a tratti persino allegro, scanzonato, perché Biondillo, classe 1966, appartiene a una generazione che gira il mondo con le cuffie dell’ipod e infila nella radio della jeep su cui si trova «pennette» con i ritmi pop e rock. Viaggia con gli occhi aperti e non lascia a casa il proprio io, e neppure lo mortifica, ma si fa accompagnare da quello che è, e non da quello che vorrebbe essere.

Sentimentale, mai malinconico, moralista ma senza eccessi, Biondillo è un viaggiatore post-postmoderno che non dimentica mai di essere stato per una buona parte della sua vita un architetto. Le descrizioni delle città, in particolare Asmara e Addis Abeba, lo vedono tutto preso dal descrivere i residui della colonizzazione italiana, i piccoli gioielli di architettura rimasti laggiù. Anche a Kampala guarda la città e il suo caos viario con l’attenzione di un urbanista. Ci sono punti in cui la sua empatia – questo il sentimento più diffuso nel libro – con gli africani, in particolare le donne della nuova leva, e poi con gli italiani delle Ong che vi lavorano, si fa molto forte: tuttavia sa anche guardare e raccontare con attenzione la storia degli italiani di quarta e quinta generazione che vivono ad Addis Abeba, tra ex fascisti e nuovi imprenditori.

La scrittura di questo libro è mossa e scattante, da cui si vede la consuetudine alla stesura di gialli e soprattutto la bravura del blogger, mestiere che Biondillo ha esercitato a lungo, e ancora pratica. I pezzi brevi e fulminanti scritti per il blog di «IoDonna» mostrano bene la necessità di rendere conto in poco spazio di cose viste, sentite e pensate, testi che s’accostano a quelli più lunghi. Lo stile a tratti è quasi jazz, incalzante e veloce, solo rallentato da quel gusto per la ripresa e la pausa che punteggia la sua stessa scrittura giallistica. Non dimentica mai, il viaggiatore che è in lui, di essere stato iniziato all’Africa nei locali eritrei e somali della zona di Porta Venezia, e più di un pensiero va al sé che ha conosciuto il mondo nei cortili di Quarto Oggiaro. Un po’ di Africa c’è anche, lo ricorda, sotto casa sua, in via Padova, a Milano, e questo lo rende meno straniero ovunque, che è poi lo stigma del nuovo viaggiatore contemporaneo.

Fonte: La Stampa

 
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Pubblicato da su 29 Maggio 2014 in Uncategorized

 

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